Il Mito e la Realtà delle Lavandaie di Castel Trosino

Lavandaia

Il Mito e la Realtà delle Lavandaie di Castel Trosino

Le Lavandaie: custodi della purezza tra mito, fatica e memoria

C’erano una volta donne chine sull’acqua, le braccia immerse fino al gomito, il viso arrossato dal freddo e dal vapore, le mani segnate dal tempo e dal sapone. Erano le lavandaie, figure ormai quasi dimenticate che, fino a pochi decenni fa, garantivano l’igiene di intere famiglie. In ogni comunità europea, e anche tra le pietre di Castel Trosino, erano loro a prendersi cura del bucato: vedove, madri sole, ragazze senza dote che con forza e dignità trasformavano un lavoro duro in un gesto quotidiano di resilienza e cura collettiva.

Ma le lavandaie non erano solo operatrici dell’igiene. Intorno a loro si è tessuta una fitta rete di simboli, riti e leggende. Il loro mondo era fatto di acqua e cenere, ma anche di racconti, misteri e spiritualità. E nei piccoli borghi, come Castel Trosino, la loro presenza ha lasciato tracce profonde.

Castel Trosino e l’acqua che purifica

Arroccato su uno sperone di travertino, Castel Trosino custodisce una ricchezza preziosa: sorgenti d’acqua pura e cristallina.

Appena fuori le mura, nella zona delle Casette, si sviluppò una vera e propria lavanderia a cielo aperto. Tra le pietre, le caldaie fumanti e le vasche scavate nella roccia, le lavandaie affrontavano il lavoro con metodo e determinazione. Al sabato partivano verso Ascoli Piceno, i panni puliti legati sul capo o caricati sui somari. Scendevano lungo i sentieri, attraversavano i ponti, arrivavano al quartiere di Piazzarola e si spargevano per le vie, restituendo la biancheria e raccogliendo nuovi carichi.

Era un mestiere logorante, ma anche ordinato e rispettato. Una catena silenziosa di mani femminili che lavavano, asciugavano, riconsegnavano. Un servizio tanto umile quanto fondamentale.

Il rito del bucato: arte, tecnica e sapere

A Castel Trosino il bucato seguiva un processo antico, tramandato a voce, che sembrava più un rituale che un semplice lavaggio. Tutto cominciava nelle vasche di travertino, le vureghe, dove i panni venivano sciacquati. Poi si passava alla preparazione della liscivia, un composto di acqua bollente e cenere versato sulla biancheria attraverso un panno ruvido, il cennerale. La cenere, bruciata da legna di noce o olivo, aveva un potere sgrassante formidabile. L’acqua filtrata veniva ribollita e versata di nuovo sui panni, questa volta senza filtro. Infine, il risciacquo: strofinati su pietre inclinate, le vresciu’, i panni venivano stesi al sole, profumati e candidi.

In alcune zone, si aggiungevano erbe aromatiche: lavanda, alloro, rosmarino. In altre, si usavano gusci d’uovo tritati per aumentare l’efficacia del detergente. Un sapere fatto di esperienza e pazienza, reso meno faticoso solo in parte con l’arrivo dei lavatoi pubblici, dove le donne potevano finalmente lavorare in piedi e trovare un momento di socialità.

A proposito della parola “bucato”, la sua origine è antica e affascinante. Compare nell’italiano scritto, nella variante “bocato”, già agli inizi del Trecento, indicando il “lavaggio e imbiancatura dei panni con acqua molto calda” (originariamente con l’uso di lisciva di cenere). Ancora prima, alla fine del XII secolo, in un documento in volgare ligure si trova “buada”, una forma che suggerisce un nome collettivo plurale. Si ipotizza che il termine derivi da un sostantivo latino non attestato, “bucata” (neutro plurale), legato al verbo germanico “BUKON” (anch’esso non documentato), che significava “lavare con la lisciva”. Questa connessione con le lingue germaniche suggerisce un’origine tardo-imperiale romana, forse attraverso i contatti militari lungo i confini dell’impero, dove i soldati appresero dai “barbari” i sistemi di lavaggio.

Le lavandaie della notte: tra leggenda e sogno

Quando il giorno finiva e la luna illuminava i ruscelli, le lavandaie cambiavano volto. Nelle leggende popolari d’Europa si raccontava di figure misteriose che lavavano sudari al chiaro di luna. Le chiamavano le lavandaie notturne, e non erano più donne in carne e ossa, ma spiriti, presagi, esseri sospesi tra il mondo dei vivi e quello dei morti.

Si diceva che battevano i panni funebri sulle pietre e che il loro suono annunciasse la morte. Guai a chi si avvicinava o offriva aiuto: un errore poteva essere fatale. In Sardegna, avevano il nome di pana, creature mitiche legate alle acque, al destino e al filo della vita.

Questi racconti affondano le radici in paure ancestrali: la notte, l’acqua, la morte. Ma sono anche testimonianza di quanto profondo fosse il legame tra le lavandaie e le forze della natura, tra il loro lavoro e l’invisibile.

La lavandaia nel presepe: immagine di purezza

C’è un luogo, ogni anno a Natale, dove la figura della lavandaia riemerge con dolcezza e forza: il presepe. Nella tradizione napoletana, la lavandaia è una presenza fissa, simbolo non solo del lavoro quotidiano, ma anche della purificazione. Viene raffigurata mentre lava o stende panni candidi, vicino a una fonte.

Il suo gesto è semplice, ma carico di significato. Richiama la purezza della Vergine, la preparazione alla nascita del Salvatore, la spiritualità dell’acqua. Alcune interpretazioni la collegano alle levatrici dei vangeli apocrifi, che assisterebbero Maria nel parto. Nei presepi orientali si trovano addirittura più lavandaie che lavano insieme, testimoni silenziose di un miracolo.

Anche nei riti cristiani, l’acqua è purificazione. E la lavandaia, con la sua umiltà operosa, diventa così simbolo della vita che si rinnova, della fede che lava le colpe, della speranza che risplende nella notte.

Un’eredità viva

Ricordare le lavandaie significa riportare alla luce un mondo fatto di lavoro, fatica, saperi antichi e spiritualità. A Castel Trosino, dove il rumore dell’acqua scorre ancora tra le pietre, si può immaginare il canto sommesso delle donne chine sulle vasche, il vapore che si alza dalle caldaie, il ritmo dei passi che risalgono la collina con i panni puliti.

Oggi non ci sono più fagotti sulle teste né cenere nei paioli, ma rimane la memoria. E rimane il valore di un gesto che univa il quotidiano al sacro, la fatica alla bellezza. Le lavandaie di Castel Trosino non erano solo lavoratrici: erano custodi della purezza, protagoniste silenziose di un sapere profondo, testimoni di un tempo in cui lavare significava anche prendersi cura degli altri, con mani forti e cuore grande.

 

“Ce sta ‘nu paisìtte bìelle
che ghie se dice Castiélle.
Su, èra tutte “lavannare”
che venié che li semare,
da lu prime a fine d’anne.
Venié pe pegghià li panne,
pe pertalli a reschiarà
iò a lu fiume Castellà.
Ma l’usanze passa lèste…
Passa tutte e passa quéste…
Mo’ è ‘rrevate lu progrèsse
e se une nen è fèsse,
che campà vò più felice,
se refà la “Lavatrice”.
Quésta lava, torce e sciacqua;
frédda e calla la tè l’acqua.
E’ na gran chemmedetà
che ormai tutte ce l’ha.
Però, nu recuorde bielle
resta sèmpre de Castielle.”